Fare la differenza


La solennità di oggi è un altro modo di dire la pasqua, il cui racconto si completa con l’evento della Pentecoste.
Ognuna del tre descrizioni di un fatto indescrivibile, risponde a domande precise che la piccola comunità del risorto poneva alla sua coscienza. In questo giorno, di separazione e di gioia (perché Gesù non è “altrove” ma è “dentro”) la domanda è .”Dove ci vuole il Signore? Che cosa fare ora che non ci lascia più i segni, prima così evidenti, della presenza del Risorto (lo stesso Signore di prima, anche se non più il medesimo)?
Non fu facile individuare subito la strada corretta, quella indicata da Gesù.
Una prima risposta sembrava la più logica: lasciar fare a Lui. Il Signore è potente, Dio ha in mano la storia. Il Padre ha tratto fuori il Cristo Signore dal potere della morte e come non farà uscire la sua chiesa dal suo fallimento? "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?".
Non è questa però la soluzione. Dio è potente e la sua forza la dona ai credenti perché agiscano. Non bisogna “stare a guardare il cielo”. È necessario partire; si apre la missione: “avrete forza dallo Spirito santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni”.
Testimoniare è un far vedere concreto, è “mantenere senza vacillare la professione della nostra speranza” (Eb). Questo è possibile perché il discepolo non è solo. Il Maestro è sempre presente e compie la sua parola: “io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso”. Rivestiti di potenza dall’alto, i primi cristiani adesso capiscono finalmente il senso di quelle parole misteriose, improbabili, che avevano sentito nell’ultima cena: “Voi farete cose ancora più grandi di quelle che io ho compito”. Più grandi, perché più ampie, dilatate. Altre terre, altri confini, fino alla fine di ogni confine: la bella notizia da portare al mondo intero.
Ma come fare? La descrizione di Matteo coglie il nodo: “alcuni però dubitavano” (Mt 28,16). E i motivi di questo scoraggiamento erano più che giustificati. Poco prima molti di quei medesimi discepoli avevano abbandonato Gesù ed erano fuggiti. Pietro aveva rinnegato e Giuda tradito. Realisticamente, che cosa si poteva fare, ora diventati definitivamente orfani dei segni sensibili della presenza di Gesù? La potenza dello Spirito si manifesta così: quando non ha la più pallida idea di come sia possibile, credi, ti abbandoni e parti. Come Maria di Nazareth. Fecero proprio così e la fede percorse le terre e la storia. Fino a noi.
L’Ascensione del Signore è la solennità che affida a ogni cristiano il compito di “partire”, di partecipare alla missione, di assumersi una responsabilità, dentro e fuori la comunità. Nessuno può più dire: “Io non sono capce!”
Ci fu un tempo, durato secoli, i cui pareva che fuori dalla comunità non ci fosse missione da compiere (si pensava illusoriamente che Chiesa e mondo coincidessero) e che nella comunità, clero, religiose e religiosi fossero più che sufficienti a garantire culto e servizio. Si poteva stare comodamente a “guardare il cielo”. La grazia dei nostri giorni consiste nell’essere costretti ad accorgerci dell’errore e a “uscire dal tempio” per la testimonianza della fede. Vale però anche per i nostri giorni, la descrizione di Matteo: ci prende più che mai il dubbio. Riusciranno le nostre comunità ad aprire gli occhi sull’incoerenza della testimonianza di fede? Essere discepoli del Signore è una “differenza” (in un mondo incredulo) che non sembra fare più differenza (religione senza testimonianza). Molti credenti che frequentano le nostre parrocchie pensano, parlano, agiscono (e hanno votato) seguendo una mentalità che, secondo l’insegnamento della chiesa di oggi, non è compatibile con le parole e i gesti di Gesù. Una “differenza che non fa differenza” diventa sale che ha perso sapore e “a null'altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Mt 5,13).
Timorosi, come i discepoli chiusi nel cenacolo, attendiamo in preghiera l’evento dello Spirito.

 




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