Il lavoro dell'amore
L’accoglienza, l’affetto, la premura reciproca, l’amicizia sono beni fondamentali della vita. Sono anche valori centrali del vangelo. Il messaggio liturgico di oggi riporta però una frase di Gesù che sembra avanzare una pretesa smisurata: “Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me non è degno di me”. Gli affetti più cari sono immediatamente riportati alla croce: “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me”.
Perché? La motivazione è subito evidente: l’amore è un’uscita da se stessi, è volere il bene dell’altro: “Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.
L’amore è dunque non solo un’esperienza affettiva ma anche, sempre, una scelta di alto valore etico e spirituale. Amare è poter dire all’altro: “Per me è un bene che tu esista, sono contento che tu ci sia”. “Voglio essere con te e desidero che tu sia con me, così come sei, non per quello che mi piace o mi serve. Ti amo senza condizioni”. Nell’amore tocchiamo così le profondità più originarie dell’umano.
Essere in relazione di amore instaura il legame, un vincolo che promuove la libertà dell’altro perché agisce secondo la dinamica del dono. Compito della maturità della coppia è il quotidiano lavoro dell’amore, che garantisce la continua evoluzione dell’intesa e del progetto. Oltre alla dimensione erotica, i fattori più forti di coesione coniugale diventano i valori morali e relazionali: la stima, il rispetto, l’ammirazione.
L’amore dunque è un lavoro. Lo hanno intuito i poeti e i maestri più degli psicoterapeuti.
“Non c’è nulla di più arduo che amarsi. È un lavoro, un lavoro a giornata (…) e le convenzioni hanno tentato di fare un rapporto facile e leggero, le hanno conferito l’apparenza di essere alla portata di tutti. Non è così. L’amore è una cosa difficile, più difficile di altre (…) Le relazioni umane, elemento essenziale della vita, sono, fra tutte, la realtà più mutevole, la più fluttuante; e gli amanti sono proprio quegli esseri le cui relazioni non conoscono due istanti identici. (…) Chi ama deve cercare di comportarsi come se fosse di fronte a un grande compito: sovente restare solo, rientrare in se stesso, concentrarsi, tenersi in pugno saldamente; deve lavorare; deve diventare qualcosa” (R. M Rilke)
Il termine “lavoro”, applicato alla relazione, è elaborazione e trasformazione del bisogno in desiderio, del desiderio in legame, del legame in virtù sociale. Solo tale lavoro garantisce la durata dell’amore. L’amore dura quanto prosegue il lavoro della relazione.
Questa quotidiana fatica è contrastata dalla “nuova religione” . Oggi, infatti, l’amore è un bene così raro da diventare “oggetto di culto” (ma non di pratica). La “religione dell’amore”, l’”amore dell’amore” non ha bisogno di misurarsi con le dure esigenze della formazione della coscienza morale. Ritiene sufficiente lasciarsi andare all’emozione dell’attimo, illudendosi che esso contenga l’eterno. Le dimensioni della vita affettiva, famiglia, matrimonio, sessualità, sono in questo modo “sentimentalizzate”. Sono cioè considerate e valutate per la gratificazione emozionale che arrecano, diventano un “rifugio” per sopravvivere all’inclemenza della società tecnologica. Del romanticismo si vuole prendere il meglio: ricavare uno spazio di libertà, dove ognuno possa godersi la sua parte d’immaginario. Si alimenta il sogno, ben attenti a non pagarlo troppo caro. Oppure si cercano altre vie, più immediate come negli incontri effimeri sulla rete.
L’amore come bene è chiamato della Bibbia agape. L’agape ha caratteri originali: è opera della libertà ma non sceglie secondo criteri di preferenza (come l’eros), è amore ma non cerca reciprocità (coma la filia). Richiede lavoro perché non è aiutato dalla spontaneità, gli è essenziale la durata perché non misura gli istanti, pur essendo orientato sempre al presente. Resiste al modello dell’individuo calcolatore, eppure è tutto proteso sul concreto qui e adesso. L’agape non conosce misura e limite: ama anche l’eros e l’amicizia. Non li contrasta, anche se provoca in essi una trasformazione profonda dell’affetto, imprime un cambiamento di forma che dalla spontaneità conduce alla consistenza. L’agape è l’impegno responsabile che si prende cura della relazione: chiama l’innamoramento a trasformarsi in amore, l’amicizia a diventare progetto. L’agape è indisgiungibile dall’etica, opera di libertà e di ragione. Per questo scombussola e perturba. Non si ferma alle persone, ma rinnova l’organizzazione della vita collettiva. L’agape è quindi impossibile senza la disponibilità al cambiamento. La rinuncia che l’agape richiede, tuttavia, non è vissuta come perdita ma come acquisizione.
L’impiego smodato dell’aggettivo “delizioso” nel parlare comune, è forse un indizio della resistenza al fascino dell’agape. Si preferisce la delizia della gratificazione istantanea dell’eros e della filia, più facilmente trasformabili in formule di godimento e di consumo.
L’agape non conosce misura e limite: ama anche l’eros e l’amicizia. Non li contrasta, anche se provoca in essi una trasformazione profonda dell’affetto, imprime un cambiamento di forma che dalla spontaneità conduce alla consistenza. L’agape è l’impegno responsabile che si prende cura della relazione: chiama l’innamoramento a trasformarsi in amore, l’amicizia a diventare progetto. Non cambia solo le abitudini di vita delle persone ma la loro identità. Toccati dall’agape si rimane i medesimi (non c’è plagio né suggestione) ma non più gli stessi. Le convenienze e gli obiettivi personali sono costantemente posti in rapporto alla trascendenza dell’altro, al suo vero bene. L’agape è indisgiungibile dall’etica, opera di libertà e di ragione. La rinuncia che l’agape richiede non è una perdita ma come un’acquisizione. Esattamente come vivere gli affetti come insegnava Gesù.