La fede trinitaria e il grembo materno della Chiesa
Nella vita e nelle parole di Gesù è chiaro che Dio non è l’"Assoluto", la "Causa di sé", il “Motore immobile” dei filosofi, ma è il Padre. All'inizio di ogni cosa non c'è l’'Essere" e nemmeno il "Vuoto", ma la generazione.
Dio è Padre perché genera il Figlio, Dio è Figlio perché generato (“Generato, non creato”). La loro generazione non è chiusa in loro ma è persona: lo Spirito Santo, che “dà la vita” (come si professa nel Credo). “Generare”, che significa “realizzare se stesso dando la vita all’Altro”. Per questo “Dio è amore” (1Gv 4,16) secondo l’ultima, definitiva rivelazione biblica. Questo amore è grande, infinitamente più potente di ogni affezione umana. Si chiama “agape” (carità) ed è Dio stesso. Ha la virtù di redimere non solo chi lo dona, ma di salvare anche chi lo riceve. Questo amore è la via d’uscita dalla vulnerabilità umana più tragica: il peccato.
Nel cristianesimo l’amore è costituito come l’unico criterio di vita. C’è una maternità-paternità che non si esaurisce in famiglia, ma si sporge e raggiunge anche i figli degli altri. Generare è prendersi cura del mondo, è entrare attivamente nella storia.
Noi non possiamo evitare di consumarci. Nasciamo nella massima impotenza e moriamo perché attaccati e vinti. Questa estrema vulnerabilità non ci toglie però la libertà.
Possiamo decidere per chi e per che cosa consumarci.
Il lume, a lato dell’altare, spiega metaforicamente il mistero del dono: la cera si scioglie e si consuma e solo così produce luce, calore e bellezza. Consumarci producendo luce: ecco il nostro programma di vita.
L’illuminazione è quindi sempre associata al perturbamento (“consumarci”) perché scuote le persone dalla rassegnazione, dalla mediocrità, dall’adeguamento. La testimonianza cristiana, pur perseguendo l’affabilità e la pace con tutti (Fil 4,5), non è mai irenica e “pacifica” (Lc 12,51). È destinata, piuttosto, a portare una “spada”, a suscitare anche conflitti.
Si diventa luce solo nel travaglio quotidiano e nelle limitazioni della peccabilità. Dio però non ignora il corpo sensibile, ma, nello Spirito, lo fa ardere, accende di luce anche i sensi, perché non li vuole spenti (a tanto si spinge, nella linea dell’incarnazione, l’inno liturgico: “Accendi una luce ai sensi”), scalda e scioglie ciò che è assopito e alienato, rigenera ciò che è apatico e senza desiderio. Compito della testimonianza cristiana è di essere “luce” e “sale” (Mt. 5,13): riportare alla luce le verità celate nelle esperienze quotidiane della vita.
Il mondo, diventato un’immensa periferia, aspetta la testimonianza affidabile che per Dio noi non siamo perduti, che per lui contiamo come figli. Questa garanzia non può essere data dai grandi eventi, ma solo dalla disponibilità di posti domestici, luoghi di accoglienza e di adorazione, pieni di attenzione, affetto e poesia, accessibili a tutti.
La parrocchia che non diventa lievito nella pasta contribuisce a rinforzare l’anonimato della società di massa, perché trasmette una sensazione immediata di chiusura. Chi non appartiene alla cerchia delle persone che contano, resta ai margini. La comunità cristiana diventerebbe in questo caso, sale spento e presenza inutile. Perderebbe i soggetti delle beatitudini, cioè la sua destinazione.
Nella chiesa che nasce dove sono le folle, invece, il Signore continua a ripetere i suoi gesti del toccare, sollevare e guarire, riassunti nel rito eucaristico dello spezzare il pane. Così si vince l’anonimato e la disperazione. Il servizio di accoglienza e di cura non è quindi un’attività sociale di ripiego, ma vera opera di evangelizzazione. Nella società avanzata si è molto ridotta la capacità di costruire comunità di senso. In un’epoca di anomia, dove la vita sociale rischia di finire nel caos avendo perso i punti di riferimento, ci sentiamo vulnerabili e soli, in una situazione di grande instabilità.