I nostri affetti


La piccola perla della lettera a Filemone testimonia come la fede ha cambiato e può cambiare i costumi sociali e le leggi. Lo schiavo Onesimo era fuggito dal suo padrone Filemone. Una palese e grave trasgressione della ferrea legge della schiavitù, pratica normale del tempo. Lo schiavo riesce a raggiungere Roma, dove incontra Paolo nella sua semiprigionia. Si converte e diventa cristiano. Il credente è fedele alle leggi dello stato. Onesimo quindi deve ritornare dal suo padrone. Lo accompagna il piccolo scritto di Paolo che è un invito delicato e pressante a perdonarlo e riaccoglierlo. Avviene però un capovolgimento radicale della situazione: ora a Filemone è chiesto di guardare a Onesimo “non più però come schiavo, ma molto di più che schiavo, come un fratello carissimo”. Da schiavo a fratello: l’etica della fratellanza (universale con gli uomini e la natura) è l’unico germe di speranza dei nostri giorni. Occorre fermarci e tornare alla saggezza: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Salmo). È un percorso difficile: “A stento ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano” (1° lettura)
Tutto può partire dalla quotidianità, da ciò che più è a portata di mano: i nostri affetti. Oggi Gesù vuole mettere in discussione i nostri affetti, il modo in cui li viviamo. Sono ciò che di più bello abbiamo dalla vita, importanti, preziosi. Sono ciò che ci fa vivere; ma possono diventare soffocanti e procurare tormento dentro di noi e sofferenza fuori di noi. La parola del Vangelo è chiara ed esigente: Gesù ci chiede di non sopportare più, di provare disgusto per tutti i nostri disordini affettivi, per le nostre immaturità e incapacità affettive. La cattiva gestione dei nostri affetti è incompatibile con il Vangelo. Gesù ci chiede di ribellarci nei confronti di legami che diventassero soffocanti, che ci chiudessero agli altri, uccidessero la nostra libertà e ci rendessero possessivi, egoisti e gretti.
Ci sono almeno due condizioni da tenere presenti se vogliamo essere dei cristiani maturi, perché la nostra vita affettiva è molto importante, è importante come l’acqua, come il pane. Non possiamo vivere senza affetti. I nostri affetti sono il luogo dove il Signore si rivela. È nella nostra capacità di sentire, infatti, che Dio si manifesta come Amore.
La prima condizione. Non dobbiamo chiedere agli affetti ciò che gli affetti non possono dare. L’affetto, per esempio, non ci libera dalla nostra solitudine Dio solo riempie la misura del nostro bisogno di affetto, perché siamo nati dal suo Amore e ci colmiamo solo del suo Amore. “Se uno non mi ama più di suo padre, sua madre, la moglie, i figli…”. Dobbiamo sempre purificare i nostri affetti, non dobbiamo mai accontentarci del modo con cui amiamo. Dio solo ci insegna ad amare. “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. L’amore possessivo produce schiavi (la nuova schiavitù) . Nell’intensità dei nostri affetti, l’altro diventa “speciale”. I genitori vedono nel loro figlio un bambino speciale, l’innamorato vede nell’innamorata una persona speciale. In realtà siamo tutti “normali”. Tutti abbiamo virtù e delizie. Abbiamo anche pesanti zone d’ombra. Tutti. Nessuno è esente. Non solo è necessario accettare i limiti dell’altro. L’amore maturo conduce fino ad amare il limite dell’altro. Non nel senso di giustificare o di compatire, ma nel senso vero di accettarci così come siamo, perché noi non siamo capaci di perfezione. Dio solo è l’amore.
Seconda condizione. I nostri affetti esigono di essere ordinati. L’affezione si diffonde in un modo caotico. La sua regola è aderire a “ciò-che-sento”, “ciò-che-provo” qui e adesso. Nei miei affetti non mi posso accontentare della gratificazione istantanea. Devo chiedermi ogni volta se è giusto, vero, buono quello che provo, quello che vivo.
La maturità affettiva è il capolavoro della nostra vita. È la costruzione di una meravigliosa torre. Non basta però l’entusiasmo del proposito. Prima è saggio calcolarne la spesa, essere consapevoli dei mezzi per portarla a compimento (cioè Dio). Lasciare l’opera a metà è sempre una delusione e nella pratica della fede una grave contro testimonianza.

 




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