Prendersi cura degli altri


Il potere-dovere di sciogliere e legare che Gesù aveva dato a Pietro, è partecipato, in diversa misura, anche ai discepoli: “Tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo”. Questo avviene quotidianamente attraverso la correzione reciproca che è una forma concreta di “amore vicendevole” (S. Paolo) e un modo efficace e concreto di prendersi cura anche degli errori degli altri (Ezechiele). Noi siamo legati gli uni agli altri, non siamo venuti al mondo da soli. Non abbiamo scelto di nascere, siamo stati donati.
Siamo da sempre conosciuti e amati da Dio, ci dice la Bibbia. Il nostro nome è scritto sul palmo della mano del Signore, insegnavano i profeti. Possiamo tutti i giorni curare questo sguardo: vedere nell’altro la presenza di Dio, riconoscere che da sempre Dio lo ama. Se amo chi abita nella mia casa, che è a scuola o al lavoro con me, lo voglio migliore, Cerco di amarlo, come lo ama Dio. Se non sei in comunione con i fratelli, celebri l’eucaristia ritualmente ma non spiritualmente. Se ti vuoi sentire in comunione con Dio, cerca di prenderti cura dei fratelli. E di non darti pace, insiste Gesù oggi, finché non noti dei miglioramenti. Sicuramente allo stesso modo fanno i genitori che amano ed educano i loro figli. Sta qui la differenza tra criticare e correggere. Il primo verbo è la nostra pratica quotidiana, Significa dire davanti (poco) o dietro (per lo più) che cosa dell’altro non ci va, non ci piace, non sopportiamo. Correggere, invece, significa desiderare e contribuire al bene di quella persona, intravedendo in lei non il mio giudizio ma la presenza di Dio. Criticare è facile, non comporta fatica, ci viene immediato come una pulsione. Quindi è un vizio.
Correggere richiede attenzione, preghiera e amore. Dunque è una fiorita di virtù.
Il primo rende acidi e cattivi, il secondo rende umili, consapevoli del rischio di “togliere la pagliuzza nell’occhio del fratello mentre tu hai una trave” (Mt 7,5). La correzione dell’altro, quindi, corregge prima di tutti me. Per migliorarci ci vuole molta pazienza, bisogna insistere tutti i giorni. Ma alla fine è grande la soddisfazione di vedere che noi e gli altri miglioriamo.
Una cosa molto simile avviene anche a scuola che tra poco riprenderà. Gesù infatti voleva dei discepoli intelligenti: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc 12, 57). In noi infatti Dio ha messo il suo Spirito di scienza e intelligenza Il primo compito educativo della scuola consiste nell’aiutare gli allievi a trovare piacere nel pensare e nel sapere. Noi nasciamo ignoranti ma con un’attitudine smisurata alla curiosità e alla domanda. Lo stupore e la sorpresa accendono nel bambino la sua straordinaria voglia di toccare, di provare, di sapere. Era questo il motivo per cui Gesù amava tanto i bambini e li poneva a modello dei discepoli: per la loro straordinaria curiosità e capacità di meravigliarsi. È la verità, infatti, che rende liberi (Gv 8,32). Tanto più si sente amato, tanto più il bambino è curioso e vuole imparare. Nel linguaggio biblico conoscere e amare, infatti, si dicono con lo stesso verbo. Senza passione non si sopportano la fatica che la scuola comporta. Oggi è diventato difficile e raro educare alla fatica e alla responsabilità. Ma quando siamo esonerati dal senso del dovere, siamo privati della soddisfazione della conquista.
Arredo essenziale dell’aula scolastica è banco di scuola (che a casa è il tavolo dei compiti). Sul banco si “suda” per una difficoltà imprevista e si esulta per la trovata soluzione; ci si annoia per la stanchezza e si gode per la scoperta di cose nuove; si prova l’umiliazione del “non ce la farò mai” e l’esaltazione del “sono anch’io capace”. Il banco di scuola è come l’altare della chiesa. Su entrambi si compie un sacrificio. Si dovrebbe andare ogni giorno a scuola con la stessa gioia e meraviglia con cui il sacerdote si accosta all’altare.

 




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