Missione terapeutica


Il cristianesimo si è presentato fin dagli inizi come proposta terapeutica, più che come messaggio ascetico. Gesù si dichiara inviato a sanare i cuori affranti, a liberare gli oppressi, a dare la vista ai ciechi. Testimonia non solo con la parola liberatrice ma anche con i gesti della fisica e psichica, la possibilità di una salvezza e di un risanamento completi. La salvezza è tale solo se riguarda la persona nella sua integralità. Fin dall'inizio i discepoli hanno invocato il Cristo come il medico dei corpi e delle anime.
I Vangeli testimoniano l'efficacia curativa del messaggio di Gesù: della sua presenza e delle sue parole. L'insegnamento sulla guarigione è evidente nel suo atteggiamento nei confronti dei malati e degli emarginati. Gesù non indugia in discussioni sulle origini e sulla natura del dolore, snoda i cavilli che si costruiscono intorno alla sofferenza. La malattia è invece collegata al manifestarsi delle opere di Dio (Gv 9,2). La gloria di Dio splende nella vulnerabilità. Gesù accoglie i malati e gli "indemoniati", li trae fuori dalla loro condizione di disperazione e di passività, provoca il cambiamento del loro atteggiamento nei confronti della vita.
Il messaggio delle beatitudini, condizioni per essere cittadini del Regno, apre prospettive straordinarie e impreviste per vivere da uomini risanati. Per Cristo la guarigione è conversione piena, malattia liberata dalla sua angoscia, capacità di accogliere la realtà e di ricominciare ad amare. La guarigione non è solo restaurazione delle forze fisiche, ma è accoglienza di una vitalità (spesso trasmessa per contatto) che ridona senso e gusto alla vita e che apre al totalmente Altro. Fin dalla prima missione, Cristo associa gli apostoli e i discepoli al suo potere di guarire le malattie (Mt 10,1; Lc 9,1-6). Questa è ancora la sua ultima e definitiva missione prima di lasciarli, dopo la Pasqua (Mc 16,17).
Nella tradizione cristiana è sempre stata riconosciuta una connessione misteriosa tra la santità della vita e la capacità di guarigione, tra la visione religiosa dell'esistenza e le doti terapeutiche (intese come carismi) verso il prossimo sofferente .
Che questo legame si vada perdendo per alcuni versi e, per altri, sia stravolto nel suo significato evangelico di segno, per essere lasciato a interpretazioni miracolistiche o salutiste, costituisce un nodo pastorale che sollecita la riflessione della Chiesa.
Le comunità cristiane sono dunque depositarie di una "valenza terapeutica" e hanno la responsabilità di viverla nell’ascolto e nell’accoglienza delle vulnerabilità, con la parola e con l’azione. Nell'ascolto e nella conversazione, la parola guarisce perché sollecita le energie della fiducia e conduce verso orizzonti altri. Nella vicinanza empatica dei gesti e delle azioni, chi vive il dolore o la sventura è accompagnato ad accettare la propria condizione e quindi se stesso. Non è solo questione di servire per amore i fratelli, di spendere la vita con dedizione e generosità, di ridare fiducia alla persona e di credere nelle sue capacità. La fede costruisce una nuova saggezza, opera un cambio di civiltà. Per questo le opere della carità fanno sempre segno alla misericordia di Dio.
Nella visione cristiana della vita, guarire è cominciare a diventare capaci di assumere e sviluppare le concrete possibilità della vocazione umana, anticipando quella pienezza di umanità realizzata in Cristo. Si possono distinguere i livelli personali e sociali della guarigione e della resilienza, ma non possono essere separati. Una società risanata garantisce la salute dei cittadini, così come persone sane rendono sana la società. La guarigione (la resilienza) è l'emergere dell'equilibrio e dell'armonia personale, del coinvolgimento della solidarietà sociale, dell'interrogativo della trascendenza. In questi processi confluiscono l'iniziativa di Dio e la risposta umana, la santità personale e la testimonianza nel mondo. Il punto di vista etico non può quindi essere separato da quello esplicitamente religioso: nessuno è veramente guarito fino a che non recupera la propria religiosità. Diversamente, la fede sarebbe relegata nel privato con l'inevitabile conflitto tra evangelizzazione e promozione umana e il perenne rischio della Chiesa di chiudersi nei confronti del mondo o di confondersi con le logiche mondane.

 




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