Il battesimo: dono e conversione
Il racconto dei Vangeli sinottici si apre con un invito, costituito dalla prime parole che Gesù pronuncia, che ha l’essenzialità della formula catechistica: “Convertiti e credi al Vangelo” (Mc. 1,15; Mt. 4,17). La chiamata della fede comporta fin dall’inizio, nello stesso tempo, il dono e la scelta. Per volgersi al Vangelo è però necessario abbandonare le strade false, per orientarsi al Signore è indispensabile respingere gli idoli e vincere la tentazione della fuga nell’alienazione: la vita ridotta a pura materialità o la patologia del sacro.
La prima scena in cui con Gesù appare non è un evento di esteriorità ma un rito di conversione: Gesù in fila con chi chiede al Battista l’immersione della penitenza.
Nel Vangelo di Giovanni, invece, la prima voce di Gesù è una domanda “Che cercate?”. La risposta apre un cammino dietro a Lui (“venite”), per fare della fede un’esperienza reale (“vedete”).
Per chi entra in parrocchia, dovrebbe poter risuonare ancora e sempre il medesimo interrogativo: “Che cercate?”. Non è scontato, infatti, che varcando la soglia sia l’incontro con il Signore Gesù la motivazione della venuta. Solo dalla risposta alla domanda a proposito di Gesù inizia la conversione, senza la quale non è possibile accogliere il Vangelo. Lo dovrebbe indicare bene anche l’aula liturgica. Entrando in chiesa su un lato il battistero ricorda ai fedeli che senza il dono di Dio non si passa per la porta che è Cristo per formare l’assemblea dei credenti. In un luogo simmetrico al battistero, la cappella penitenziale indica la Riconciliazione come il sacramento che celebra la conversione e il dono dello Spirito per la remissione dei peccati. La dignità del luogo, che ispira il parallelismo con il battistero, aiuta a riconoscere nella penitenza la stessa Grazia del Battesimo. Il decoro e la cura della sua celebrazione garantisce la riservatezza dell’ascolto individuale ma anche l’appartenenza a una comunità che ha sempre bisogno di ricominciare la conoscenza e la sequela di Gesù.
L’invito alla conversione, che risuona insistentemente nella liturgia, si pone in termini molto concreti nella vita quotidiana della parrocchia: vivere come fratelli è la prima opera di “penitenza”, la più difficile espressione del culto della vita. La parrocchia “centrata sull’affetto” (cioè autoreferenziale, chiusa in se stessa) tende invece a rimuovere la fatica della conversione e a dimenticare il Sacramento che l’accoglie e ridona la Grazia. L’affetto, infatti, come è declinato oggi, appare una grazia a “buon prezzo” (ti voglio bene finché “lo sento”).
Il crocefisso posto sopra all’altare è lì a ricordare che il perdono di Dio è sicuro e gratuito ma è Grazia a “caro prezzo”.
Nella comunità chiusa al mondo la pastorale non rimanda innanzi tutto a Cristo: si frequenta finché ci si trova bene. La parrocchia missionaria, invece, diffida dei “pochi ma buoni”, dei “duri e puri”, abbatte i confini e chiama tutti: “Tanti e peccatori”.
La pretesa perversa di essere pochi in confronto ai tanti che non sono buoni è chiarita bene dalla figura evangelica del peccato come mormorazione. I farisei e i loro scribi non sopportano che i discepoli mangino e bevano con i pubblicani e i peccatori (Lc. 5,30), non approvano che Gesù vada ad alloggiare da un peccatore (Lc. 19,7). Si comportano come i servi della parabola che nel ritirare il salario pattuito mormorano contro il padrone accusandolo d’ingiustizia.
La presunzione di essere buoni illustra una seconda forma del peccato: la dimenticanza.
Con insistenza il Signore lo raccomanda al suo popolo: “Guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste” Dt. 4,9; 4,23; Dt 6,12. Il cristiano presuntuoso dimentica che Dio solo è buono (Lc. 18,19) e che ogni gesto di bontà proviene da Lui. Il suo cuore s’inorgoglisce fino a dimenticare il Signore Dio che libera dalla condizione servile (Dt 8,14). L’oblio è molto favorito dalla materialità della vita, dall’attaccamento all’abbondanza delle cose e dalla propensione ai consumi.