Uscirne migliori
L’incendio del tempio ad opera dell’esercito di Nabucodonosor, la distruzione di Gerusalemme e la conseguente deportazione (587 a.C.) hanno rappresentato una tremenda umiliazione e un’incancellabile sventura. L’anonimo autore del libro delle Cronache medita sulle cause e sul senso di questi tragici avvenimenti. Dio vi ha posto fine, ispirando a Ciro la liberazione dei deportati. Il testo letto in questa domenica non dice altro. Ma si sa da altre fonti che quest'esilio ha portato frutti inattesi: intensa attività spirituale, teologica, letteraria; assemblee nelle quali l’ascolto della Parola, l’offerta dei cuori pentiti e l’osservanza della legge sostituivano i sacrifici del tempio; rilettura e approfondimento delle antiche tradizioni, dei testi di fondazione, dei profeti anteriori.
Così accade sempre nella storia della salvezza, nella quale tutto è grazia e novità.
La liturgia di oggi si apre quindi con un invito a non avere paura, anche se ci avviciniamo al giorno della passione, della morte tragica del Figlio di Dio. Se noi ci impegniamo seriamente ad accompagnare il suo dolore, il buio della croce è già rischiarato dalla resurrezione.
Il Signore Gesù, umiliato sul Calvario, è il Vivente, è il Risorto.
Ci prepariamo quindi al grande tempo della passione, nella speranza e nella gioia.
La speranza è una gioia particolare: ti fa immaginare ciò che non si vede, anticipa quello che non c’è ancora. La speranza cristiana è la certezza che Dio non ci abbandona e il suo modo di non abbandonarci è la croce. Quel segno, per noi, è l’unica speranza a cui possiamo accedere. La croce è il segno e la forma di ogni gesto autentico e vero, è l’indicazione dell’amore compiuto e radicale.
Dio talmente ha amato il mondo, da donare il suo Figlio. Ha amato il mondo così com’è, anche nella sua cattiveria e infedeltà. Non abbiamo che da alzare gli occhi alla croce e imparare da quel segno cosa significa amare.
La speranza e la gioia del cristiano nascono qui.
Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, anche se noi lo dobbiamo ammettere, con il nostro comportamento, con la nostra ostinazione, ci meritiamo il giudizio, cioè la mancanza di fiducia nei nostri confronti.
Invece la risposta di Dio è rovesciata: il mondo deve essere salvato per mezzo di Lui.
Abbiamo tanti motivi di angoscia e di tristezza.
Alcuni sono legati al nostro mondo, alla nostra società, dove ci sentiamo minacciati nella salute, dove non riusciamo ad immaginarci un futuro e dove la vita è diventata inquieta. Poi ci sono i nostri motivi personali, la fatica della quotidianità; infine, i motivi più radicati, più profondi, legati al senso del vivere, del patire e del morire.
In questa debolezza, la fede è il più grande aiuto che abbiamo per vivere. È una forza che viene dall’alto, ci sor-prende. Non la inventano le nostre parole. Questa fede, cioè il crocefisso, trasforma il nostro cumulo di angoscia in speranza, in fiducia, in prospettive di futuro che da soli non riusciamo a darci.
La messa è il luogo dove, celebrando il Cristo morto e risorto, il peso della tristezza e dell’angoscia si cambiano in speranza. La fede cristiana quindi non è rassegnazione al dolore ma celebrazione della speranza!
Fede è tutto ciò che genera nel cuore la gioia. È quindi un’esperienza di vita. Si gusta, si vede, si tocca.
Ci nutriamo di un pane che ci trasforma intimamente e concretamente. Il modo con cui ci scambiamo quel dimesso sguardo di pace, ci accogliamo e ci saluteremo, senza neppure poterci avvicinare e parlare uscendo dalla chiesa, la confidenza e il legame che s’instaurano sono i piccoli segni che indicano che, qui abbiamo incontrato la speranza che non ci permette di continuare a sentirci muti, impotenti e impauriti davanti al mondo, che Dio ha amato così totalmente: “Dio ha talmente amato il mondo”. È un amore appassionato e totale al “mondo”, cioè a chi non lo merita, perché malvagio e inaffidabile, e non è neppure capace di accorgersene. La fede è la domenica della vita, il nuovo che scaccia la rassegnazione, il già del non ancora. È la pienezza della vita (Sei il mio pastore, nulla mi mancherà!). Dio non solo vuole il nostro bene che include la prosperità ma è disposto a spingersi in là per assicurarcelo, come dimostrano le sofferenze del suo Figlio.
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