Il voto di Poirino


La vita del popolo lascia nella storia delle tracce indelebili che neppure il materialismo consumistico finora è riuscito a cancellare. La fine della terribile pestilenza del 1630 ha unito Poirino in una festa di liberazione e di ringraziamento che si ripete ogni anno, la terza domenica di settembre. Come si può fare festa in un cimitero? Per la tradizione della nostra città evidentemente sì. E ci sono due validi motivi. Il primo viene dall’antica saggezza umana che insegnava ad accettare insieme la vita e la morte. Chi impara a morire, impara a vivere. E viceversa. In fondo anche la morte è una bella invenzione: io esisto perché altri mi hanno lasciato il posto. Altrimenti non ci sarebbe stato spazio per me. Morendo lascerò il posto ad altri. Vita e morte sono le due facce dell’unica medaglia che è la misteriosa avventura umana. Questa saggezza non toglie il dolore e il dramma della perdita degli affetti e il tormento che la nostra morte infliggerà a chi ci vuole bene. Può però aprirci al secondo motivo di questa festa. Esso è già contenuto nel nome: per i cristiani il cimitero è il “campo dei santi”. Luogo sacro di silenzio e di pace, dove si ricorda, si prega e s’impara a pregare e a vivere. Chi prega confida che il Signore non lascerà mancare il suo aiuto. La preghiera, tuttavia, raggiunge la sua verità più profonda non tanto quando chi prega “offre la vita” (affida a Dio i suoi bisogni e gli domanda aiuto), quanto piuttosto quando consegna totalmente se stesso e lascia ogni cosa a Dio: “Padre, io mi abbandono a Te, fa' di me ciò che ti piace. Accetto tutto, rimetto l'anima mia nelle tue mani. Te la dono”. Essere pronto a ogni cosa, accettare tutto, rimettere l’anima, sono tutte disposizioni che corrispondono al morire. La preghiera nuda e pura dona al Signore “la propria morte”, offre la rinuncia a mettere l’Io al primo posto, presenta a Dio la propria totale povertà. Questo atteggiamento orante coincide con la maturità umana, come l’hanno considerata, per esempio, le scienze umane. Persona matura, a qualunque stadio della sua evoluzione, è chi sa stare solo, chi ha imparato a separarsi. Il giorno della morte, infatti, dovremo lasciare tutto. Imparare a morire è imparare a lasciar andare.
I genitori apprensivi sono spesso incapaci di cogliere le vere esigenze dei figli, si curano solo dei suoi bisogni materiali. La loro presenza li avvolge da ogni parte, ma non li aiuta a cavarsela da sé nella vita. Questa consegna totale alla volontà di Dio è un traguardo umano oggi particolarmente difficile, perché l’educazione è in crisi. Per dare un senso alla vita è indispensabile “offrire la morte”. Solo in questo totale abbandono ci si mette al riparo dal potere distruttivo della solitudine e la certezza dell'Amore ci introduce nella compagnia umana con i vivi e con i morti. Liberati dal terrore della morte, sperimentiamo così una pace imperturbabile: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, chi ha Dio non gli manca nulla”. (Santa Teresa)

 




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