La festa del camposanto (Poirino)


L’eucaristia che il 18 settembre celebriamo al camposanto è la stessa di quella che nel medesimo luogo hanno pregato nel 1630 i poirinesi di allora. Erano pochi i sopravvissuti della terribile pestilenza che aveva distrutto il paese. Nel settembre di quell’anno fecero una festa di ringraziamento per la fine di quell’incubo. Un evento di estrema gravità aveva unito allora il paese nella sventura. L’eco di quella solidarietà è rimasta viva fino a oggi.
Anche noi siamo alle prese con una pandemia, anche se abbiamo molti più mezzi per combatterla. La morte però esiste ancora, non è diminuita la nostra precarietà, malattie inguaribili continuano a minacciare i nostri affetti. In più, siamo immersi in cambiamenti epocali profondi che stanno modificando i significati del vivere e del morire.
La peste del Seicento a un certo punto finì. I danni arrecati all’ecosistema potrebbero essere irreversibili. Abbiamo un compito molto impegnativo nella festa del camposanto di questi tempi: ritrovare il significato sacro del vivere e del morire, per rifondare il senso dei nostri legami. Come ci insegnano i nostri concittadini del 1600, noi siamo legati gli uni agli altri. Ciò che noi usiamo quotidianamente (il clima, la terra, la lingua, la cultura...) non li abbiamo fatti noi, li abbiamo ricevuti. E dovremmo ritrasmetterli a chi verrà dopo di noi.
Il vangelo della festa del camposanto di quest’anno ci dice, infatti, che il luogo dell’incontro con Dio è proprio la concretezza della vita con le sue gioie e le sue durezze. “Chi è fedele nelle cose piccole, è fedele anche nelle grandi; e chi è ingiusto nelle cose piccole, è ingiusto anche nelle grandi”. La vita quotidiana è piccola cosa in confronto all’eternità del Regno, all’infinito di Dio. La fedeltà alla nostra condizione tuttavia è l’unico modo che abbiamo per mantenere la fede.
La vita di tutti i giorni è il campo dove si nasconde il tesoro del Regno, secondo la convinzione che da sempre condividono i cristiani: non è possibile perseguire le “cose ultime” (il Cielo) se non si è corretti nella gestione delle “cose penultime” (la terra). La nostra morte scompare se messa a confronto con l’Eterno, ma da come consideriamo la morte dipende la coerenza della nostra fede. Per noi è sempre più difficile guardare alla morte e all’invecchiamento che ce la pone innanzi. La morte non sembra più contenere una domanda, custodire un senso, che la società non sa o non vuole dare e la medicina non è incaricata di fornire. La morte è diventata così inumana, assurda, insensata come la natura quando non è addomesticata e si rivolta contro di noi. La morte perde il suo senso, il lutto assimilato alla depressione, è curato con farmaci e psicoterapie. Ci sentiamo più che mai perduti nella nostra precarietà mortale, ma siamo meno interessati a credere a un Padre che ci ama e ci salva.
Pensiamo però ai nostri cari. Qui abbiamo la presenza simbolica di genitori, coniugi, figli e parenti. Con la morte li perdiamo ma noi li cerchiamo ancora, non li dimentichiamo. Gradualmente li ritroviamo e riconosciamo che non siamo separati da coloro che amiamo perché continuiamo ad amarli in Colui che è eterno e anche dentro di noi. Come potremmo vivere, senza la speranza che esista un Cielo?
Questo era il senso originario della festa del camposanto: credere che la morte non è l’ultima parola posta a conclusione della vita, non rinunciare a sperare, costruire futuro. Quel futuro creduto è giunto fino a noi.
Questa festa, esclusiva di Poirino, ci impegna come cittadini e parrocchiani sui temi drammatici ai quali ci ha recentemente richiamato il nostro Presidente della Repubblica: la soluzione pacifica dei conflitti, la lotta alla povertà, la difesa della salute. C’è poi la sfida più grande della contemporaneità: la salvezza del pianeta dallo sfruttamento di cui noi stessi ci siamo resi responsabili. Vivendo in un territorio agricolo dovremo concentrarci su questa responsabilità concreta, possibile a tutti, determinante per il nostro futuro

 




TITOLO del Commento:


COMMENTO: