La via stretta


Si può essere interessati alla religione per pura curiosità: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?” o, detto altrimenti: “Nell’inferno c’è qualcuno?”. Gesù, che non predica la religione della paura ma la fede dell’amore, non risponde alla domanda. Ricorda piuttosto con un verbo l’unica cosa da fare a chi s’interroga sulla salvezza: ““Sforzatevi”. Il senso della vita passa per una porta stretta. Richiede fatica e determinazione. Bisogna capire bene: la fede è un dono, non è mai un conquista o, peggio, un merito. E’ piuttosto come una mano tesa che occorre afferrare, un vento vigoroso che ti afferra ma per lasciarti portare in alto devi almeno aprire le ali. Molti, osserva Gesù, cercano di entrarvi, ma non ci riescono. Vogliono cose facili e immediate. Pensano basti il nome: essere cristiani. Il maestro però insegnava: “Non chi dice Signore, Signore entrerà nel Regno ma chi fa la volontà del Padre”. Celebrare l’eucarestia per un cristiano è tutto: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze” ma è un inestimabile dono rifiutato che ci si ferma lì. La risposta alla grazia è la vita che pratica la giustizia: “Allontanatevi da me voi tutti operatori d’ingiustizia!”. La giustizia riguarda il “come” vivi, come fai ciò che fai. Giusta è l’azione compiuta secondo la retta coscienza. è un criterio universale, è valido al di là di ogni appartenenza: riguarda “tutti i popoli e tutte le lingue” dice oggi Isaia. La coscienza parla con chiarezza, se non la corrompi: fai agli altri ciò che vorresti ricevere da loro. Il criterio richiesto da Gesù è inequivocabile: “avevo fame... ero straniero... Quello che fate ai più piccolo dei fratelli lo fate a me.
L’estrema semplicità delle indicazioni evangeliche è però costantemente tradita perché richiede “sforzo”. L’eucaristia domenicale è la correzione del Signore, espressione anch’essa del suo amore: “non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché egli corregge colui che egli ama”. Tra persone che si amano in sincerità è pratica normale la correzione reciproca. Così crescono le comunità. Così soprattutto agisce l’educazione: “qual è il figlio che non è corretto dal padre?”. Se non s’impara la correzione (e il suo dolore) da piccoli, è ben difficile recuperare da adulti. Ma oggi i genitori (e i nonni) sono ancora disposti a insegnare a sopportare il dolore che la correzione produce? Educare è ancora possibile? Per la mentalità individualistica sembrerebbe di no. Che bisogno c’è d’infliggere questa pena quando la regola è: “ognuno viva come gli va”, “ognuno la pensa come vuole”, dunque ognuno è “infallibile”. Non potendo più riferirsi spontaneamente a un ordine di giustizia, condivisa da tutti, i genitori spesso non vogliono assumersi la responsabilità piena e intera del disamore apparente che essi pensano di infliggere ai figli “Ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza”. Si comprende come essi cerchino di evitare questo equivoco, lasciandosi distrarre dal compito di educare. Il servizio umano più bello e generoso, la correzione, diventa così un compito ingrato. Si è persa la seconda parte della frase della lettera agli ebrei: “Essa arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati”. L’obbedienza cristiana, infatti, è la massima espressione dell’amore. I “no” d’altronde sono sopportabili solo se segni ed espressioni d’amore. La cultura imperniata sul sé, sull’autorealizzazione, si è espressa in un radicale rigetto dell’autorità (cioè del valore di ciò che è giusto) e della tradizione genitoriale. Prima i giovani cercavano di imitare gli adulti (affidabili) mentre oggi sono gli adulti e gli anziani che voglio imitare i giovani. Non solo nelle mode, anche negli stili di vita, “dis-educati”. La conclusione della lettera è particolarmente attuale: “rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite”. Il godimento individualista ci ha fiaccati tutti. Troviamo sempre più difficile “sforzarci”. Cerchiamo in ogni modo, piuttosto, di liberarci dallo sforzo. Per non perdere la libertà, per non smarrire l’umano, per rovesciare l’assurdità mortale dell’individualismo cerchiamo la guarigione eucaristica perché “il piede zoppicante non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire”.

 




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