La fede in un mondo povero d’amore


La corruzione dell’amore è la perdita più drammatica dei nostri giorni. La crisi di questo inizio di millennio è sicuramente una crisi dell’amore. Ce n’è poco sia negli individui, sia nella società. Senza amore però le questioni della famiglia (come quelle della società e dell’ecologia) non sono affrontate in modo adeguato.
L’amore è la via per un nuovo umanesimo. La sua mancanza indebolisce il tessuto umano e rende ingovernabile la società. Nella storia dell’umanità mai il mondo è stato così ricco e i popoli così vicini. Eppure mai i poveri sono stati così numerosi e il divario con i ricchi così ampio. La tecnologia ha liberato l’umanità dalla fatica fisica e ha trasformato il lavoro. Oggi i poveri non sono neppure più “necessari” come merce lavoro. Sembra venire meno lo stesso interesse a includerli nella vita. Non conviene neppure sfruttarli. La sola parola “solidarietà” provoca fastidio. Cresce l’indifferenza generale per il destino di chi vive nella miseria e per la distanza che si scava tra benessere e povertà. Ogni cosa è trasformata in merce e competitività, e le persone in consumatori, nel godimento senza Legge dell’esaltazione individualistica della vita.
La noncuranza e, perfino, il disprezzo della vita si diffondono là dove i cittadini perdono la fiducia nel loro ambiente vitale, dove si smette di credere nel futuro.
La perdita dell’amore e della fede genera la paura e la chiusura. Era la condizioni dei discepoli di Gesù subito dopo la sua morte. “Erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei giudei” (Gv 20,19).
Non si giunge alla fede mediante una dimostrazione razionale delle sue ragioni, ma attraverso la possibilità di far luce sulla storia concreta delle persone e dell’umanità. La sorpresa (la grazia) di un incontro che umanizza, apre alla trascendenza. Individuare le tracce della venuta di Dio, coincide con il riconoscimento dei motivi di speranza, che si svelano nell’apertura al mondo. A Pasqua, la vulnerabilità estrema diventa risurrezione, manifestazione di gloria. La storia è rimessa in circolo. I discepoli che hanno visto Gesù vivere e morire come Figlio di Dio hanno potuto credere all’amore più forte della morte. Da quel momento in poi cercheranno di amare come lui aveva amato, sperimentando, secondo le sue parole, che c’è più gioia nel dare che ne ricevere (At. 20,35).
Saturi dei prodotti della razionalità scientifica, affaticati dalle prestazioni che la tecnologia impone, le persone attendono speranza. Il cristianesimo si trova oggi nella favorevole condizione di restituire bellezza e forza alla fede, interpretandola come figura della speranza, la quale scaturisce dall’amore che genera vita e se ne prende cura. Con la rivelazione di Gesù abbiamo scoperto che Dio, nella sua stessa intimità, è generazione (“Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita” (Gv 5,21).
L’annuncio della fede oggi possibile non percorre tanto le strade dell’apologetica (il convincimento del proselitismo) quanto piuttosto quelle della speranza (l’irradiazione della testimonianza).
La fatica della vita senza la speranza sarebbe vuota, come la morte di Gesù senza la risurrezione. Il contenuto della fede non diventa secondario, ma l’individualismo e la corruzione del codice dell’amore rendono ancor più necessario che le verità delle fede si possano “vedere” nella vita spesa in amore, nell’operosità della solidarietà della comunità cristiana, nella fraternità che traspare negli incontri con la parrocchia. Prima di aderire a Dio e mettere fiducia in Lui è necessario credere nell’amore: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore” 1Gv 4,16.
Nella scansione tradizionale delle virtù teologali all’inizio si pone la fede, da cui trae origine la speranza che diventa carità.
Nella società secolarizzata, il circolo della fede è attivato dall’amore che ridona speranza e conduce alla fede.
Tommaso non crede alla testimonianza dei suoi compagni. Egli desidera una testimonianza più forte, vuole toccare con mano. Vuole vedere per credere. Gesù gli insegna invece che bisogna credere (amare) per vedere. Soltanto da Tommaso ascoltiamo un’espressione così piena di fede e di amore: “Mio Signore e mio Dio!”.


 




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