Come bambini
““Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni”. La constatazione di Giacomo è più che mai attuale in questi nostri giorni in cui il linguaggio sta diventando sempre più violento. Nel dibattito politico come nelle scene familiari, dai commenti che si fanno per strada, agli insulti urlati al volante dell’auto, assistiamo ad un evidente aumento dell’aggressività. Diventa più difficile vivere insieme: ovunque discussioni, polemiche, critiche senza appello. Si amplifica la forza distruttiva dell’invidia e dell’arroganza: "Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzo”.
Le comunità religiose non sono immuni da questa tentazione. Non lo fu nemmeno il gruppo dei discepoli che vivevano con Gesù. Discutere tra cristiani chi sia il più grande, produce però effetti molto gravi. Non solo si frantumano le comunità ma si diventa totalmente impenetrabili alle parole del Maestro: “Essi non comprendevano ...”. Come ci si potrebbe accorgersi di lui quando l’attenzione è assorbita totalmente da sé?
Sorprende l’atteggiamento di Gesù. Non una parola di rimprovero, non un cenno di risentimento. Si siedono. Gesù chiama un bambino, lo abbraccia davanti a loro e lo fa maestro di quella “classe” così indisciplinata. Il vangelo è tutto lì: "Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti".
Per capire il gesto profetico di Gesù bisogna partire dalla domanda di Giacomo: “Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi?”. Oggi siamo ancora più consapevoli di un tempo della risposta. Violenza, avidità, invidia hanno una radice comune: la paura. Paura di non essere considerati, stimati, riconosciuti. Paura per l’incertezza del futuro e per l’angoscia del presente. Paura di non essere amati.
Che cosa fa un bambino quando ha paura? Piange e corre dai genitori. Che cosa fa quando bisticcia con il fratellino? Piange e corre dai genitori. C’è una scena che si ripete innumerevoli volte il giorno. Volgersi alla mamma, al papà, tendere loro le mani e farsi prendere in braccio. Così finisce la paura e finiscono le lacrime. Così si ritorna a fare pace.
Ai discepoli Gesù insegnava questo: chiamare Dio papà, tendergli le mani, farsi prendere in braccio. Proprio come avviene con i bambini. Di questo insegnamento fondamentale di Gesù la liturgia ha conservato da subito la memoria. Si prega “papà Dio” ancora oggi così: tendendogli le braccia per stare con lui come un bimbo con la sua mamma. Il greco non poteva tradurre “Abbà” che usava Gesù che con la parola: “Padre”, perdendo però molto del suo vigore. L’antica liturgia, infatti, introduceva il “Padre Nostro” insegnando che si poteva osare tanto (farsi prendere in braccio da Dio) solo perché così aveva detto e voleva il Maestro. Bisognava obbedirgli.
La fine dell’arroganza, del sospetto e dell’aggressività si trova solo così: sentendosi abbracciati, colmati dall’amore di questo Papà.
Tocca oggi a chi ascolta questa pagina del vangelo immaginare e cercare regole di vita che, come il lievito nella pasta, riportino questo nostro tempo a un più alto livello di civiltà.
Ce lo insegnerà la preghiera del Signore che tradurremo nel modo più confidenziale: “Voglio chiamarti papà e correnti incontro e tenderti le braccia per farmi sollevare verso il cielo e non avere più paura e non piangere mai più” (M. Giombini).