La sensibilità e la fede


Oggi, è la domenica ‘Laetare’, parola latina che traduce l’invito alla speranza del profeta Isaia. I tempi di serietà, riflessione e cambiamento non sono mai tristi, ma aprono sempre alla gioia. Una persona felice si vede dal volto che ci appare bello e luminoso.
Gioia e luce sono in fondo sinonimi: la luce fa vedere le cose, la gioia le fa gustare. Gesù "passando vide un uomo cieco dalla nascita". Si può chiamare il Signore: "Colui che passa, e vede". Possiamo imparare da lui a vedere con il cuore, a vedere nel cuore: a partecipare allo sguardo di Dio sul mondo e sull'uomo. "L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore" (1 Sam 16,7). Anche il cuore ha i suoi occhi, quelli dell’amore. C’è uno sguardo ancora più comprensivo: quello della fede. Siamo dotati di una capacità particolare per vedere con il cuore: la sensibilità. C’è un dono particolare per vedere nella fede e viene dallo Spirito di Gesù.
Sono però tanti gli sguardi che si possono dare ai fatti e alle cose. La scienza e tecnica osservano secondo la quantità: il peso, la composizione chimica, la struttura fisica. La mentalità tecnocratica pensa che le cose siano ottuse e conti solo l’utilità umana.
L’arte attraverso un valore aggiunto di genialità e estro ci fa gustare la bellezze delle cose, esalta la capacità delle cose di esprimere intelligenza e la nostra sensibilità nel riconoscerla. Questa relazione ci mette in grado di ricevere dalle cose un senso: una significazione, un incanto, una traccia di luce.
Tutti oggi mettono a fuoco questo fatto: questa società iper materiale ci sta togliendo la sensibilità. È una regressione, il lato oscuro del progresso. Siamo molto progrediti nella stimolazione della sensorialità ma siamo regrediti nella sensibilità.
Le esperienze in cui la sensibilità si è formata ed espressa nella storia dell’umanità sono state fondamentalmente l’arte e il sacro. La scienza e la tecnica considerano le cose dal punto di vista della quantità misurabile mentre l’arte e il sacro colgono la qualità del vivere umano. Sentire il valore dell’altro situa la relazione nella dimensione del sacro. La cura è partecipazione del sacro riconosciuto nell’altro. Sacra è la vita. Sacri sono il corpo del neonato, il timore del paziente, la domanda affettiva del bambino, le esitazioni dell’adolescente, la mente che si confronta con il mistero.
Esiste un orizzonte d’incalcolabilità che né la scienza né l’arte, né il sacro possono dirimere. Questo orizzonte è la speranza: là dove la sensibilità va oltre se stessa.
Questa esperienza umana imprescindibile è il senso trascendente della vita. Nella vita di un individuo non esistono soltanto bisogni materiali o culturali da soddisfare. Oltre a ciò che già si è realizzato, c'è sempre un "non ancora" che rende possibile il desiderio e la speranza. Ciò che alimenta l'attesa della vita umana, che dà a essa senso e consistenza e la fa amare, sono i significati che a essa si attribuiscono. La persona, infatti, si sporge sempre aldilà dei confini immediati e materiali della vita. La trascendenza è contenuta nella stessa esperienza umana, nell’agire prima ancora che nel pensare. Lo dimostra con ogni evidenza, per esempio, la straordinaria emozione del diventare genitori, così come lo indica ogni esperienza di gratuità.
Fino a quando però non si pronuncia il nome di Dio e non si sta di fronte a Lui, il sacro rimane immanente. La religione civile può anche non aprirsi alla fede.
Il dono della fede esprime il massimo della gratuità. L’atteggiamento umano più proprio, infatti, è l’adorazione: portare la mano alla bocca (“ad os”) e tacere. Chi sosta in adorazione scopre che tutto è dono, tutto è grazia. Si sta davanti a Dio come il fiore ai raggi del sole. La pianta si nutre di luce: attraverso le foglie i fotoni la raggiungono fin dalle sue radici e la rivestono di bellezza e di profumo.
Siamo mendicanti di luce. La fede non offre una spiegazione del dramma della vita ma un’immagine: l’immersione nella morte e risurrezione del Signore. Non uno schema di vita ma un cammino di libertà: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Non una regola che costringe ma la figura di un Dio che ha preso carne per vivere e morire di una morte cruenta ma redentrice.
Nel racconto evangelico, il cieco, che ha recuperato la vista, inizia a comprendere la vera identità di Gesù. L'autorità giudaica invece è completamente chiusa. Il progressivo avvicinarsi del cieco alla luce è in parallelo contrasto con la progressiva cecità dei farisei. Tre volte il cieco dichiara di non sapere. Tre volte invece i farisei dichiarano di sapere. È la loro pretesa di conoscere che giustifica il duro giudizio di Gesù nei loro confronti. I farisei presumono di sé, sono chiusi nella loro veduta, pensano di avere già la visione completa delle cose: per questo non sono aperti alla novità di Gesù. Prigionieri della loro sicurezza, i farisei non si lasciano smuovere da nulla, neppure dall’evidenza dei fatti.
Gradualmente invece il cieco è condotto alla chiarezza della fede. “Io credo, Signore!”
È anche la pienezza della gioia.
Riprende la pratica dell'agricura e quest'anno si arricchisce di un nuovo settore, quello dell'abilitazione di persone con disturbo autistico Seguici...

 




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