Voi restate in città
La solennità di oggi è un altro modo di dire la pasqua, il cui racconto si completa con l’evento della Pentecoste. Ognuna del tre descrizioni di un fatto indescrivibile, risponde a domande precise che la piccola comunità del risorto poneva alla sua coscienza. In questo giorno, di separazione e di gioia (perché Gesù non è “altrove” ma è “dentro”) la domanda è .”Dove ci vuole il Signore? Che cosa fare ora che non ci lascia più i segni, prima così evidenti, della presenza del Risorto (lo stesso Signore di prima, anche se non più il medesimo)?
Non fu facile individuare subito la strada corretta, quella indicata da Gesù.
Una prima risposta sembrava la più logica: lasciar fare a Lui. Il Signore è potente, Dio ha in mano la storia. Il Padre ha tratto fuori il Cristo Signore dal potere della morte e come non farà uscire la sua chiesa dal suo fallimento? "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?".
Non è questa però la soluzione. Dio è potente e la sua forza la dona ai credenti perché agiscano. Non bisogna “stare a guardare il cielo”. È necessario partire; si apre la missione: “avrete forza dallo Spirito santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni”.
Testimoniare è un far vedere concreto, è “mantenere senza vacillare la professione della nostra speranza” (Eb). Questo è possibile perché il discepolo non è solo. Il Maestro è sempre presente e compie la sua parola: “io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso”. Rivestiti di potenza dall’alto, i primi cristiani adesso capiscono finalmente il senso di quelle parole misteriose, improbabili, che avevano sentito nell’ultima cena: “Voi farete cose ancora più grandi di quelle che io ho compito”. Più grandi, perché più ampie, dilatate. Altre terre, altri confini, fino alla fine di ogni confine: la bella notizia da portare al mondo intero.
L’Ascensione del Signore è la solennità che affida a ogni cristiano il compito di “partire”, di partecipare alla missione, di assumersi una responsabilità, dentro e fuori la comunità. Nessuno può più dire: “Io non sono capce!”
Ci fu un tempo, durato secoli, i cui pareva che fuori dalla comunità non ci fosse missione da compiere (si pensava illusoriamente che Chiesa e mondo coincidessero) e che nella comunità, clero, religiose e religiosi fossero più che sufficienti a garantire culto e servizio. Si poteva stare comodamente a “guardare il cielo”. La grazia dei nostri giorni consiste nell’essere costretti ad accorgerci dell’errore e a “uscire dal tempio” per la testimonianza della fede. Viviamo però tempi in cui non c’è più nessuna (apparente) nostalgia di cielo, dove lo sguardo è tutto rapito dal basso. Il cielo appare disabitato, conta solo la città secolare.
La fede cristiana riceve oggi dal secolarismo uno stimolo importante per proporre la scelta religiosa come pienezza dell’umano, anche in un mondo disincantato. Se il cristianesimo non sarà capace di abitare in modo creativo la nuova condizione della secolarità, non potrà essere all’altezza del suo compito che ha l’incarico di adempiere e che il suo Signore ha destinato alle moltitudini (Mt 26,28): che la destinazione umana non è la morte e che, al termine della vita, saremo giudicati esclusivamente sulla nostra disponibilità alla condivisione e al dono, cioè al valore della vita umana.