Il tesoro nel campo
La globalizzazione del mondo e la diffusione della tecnologia avanzata stanno producendo un cambiamento d’epoca. Ci viene detto che tutto è attorno a noi, perché noi valiamo, ma il centro è sempre altrove e i meccanismi che ci governano sempre più anonimi. Siamo illusi di avere una libertà senza limiti ma ci sentiamo manovrati come folla. Abbiamo una coscienza sempre più spiccata di marginalità, viviamo nella forma dell’Io massa. Ci sentiamo cittadini di un mondo virtuale. Tutto potrebbe essere diverso ma noi non ci sentiamo impotenti.
Modellati alla scuola del conformismo, schiacciati dal bisogno di approvazione e di successo, abitanti di un mondo governato dalle apparenze, ci sentiamo spogliati della nostra individualità. La democrazia recitativa della società di massa tenta di convincerci a diventare imprenditori di noi stessi. In realtà ci fa sentire di essere soli al mondo.
Viviamo una condizione diffusa di perifericità verso ciò che muove la storia, la politica, la religione.
Se il cristianesimo non sarà capace di abitare, in modo creativo, questa nuova condizione non potrà essere all’altezza del suo compito: testimoniare alle folle di qualunque epoca e città l’annuncio che ha l’incarico di portare e che il suo Signore ha destinato alle moltitudini (Mt 26,28).
Quale forma dovrebbe darsi la chiesa per essere coerente alla sua missione?
Ritornare alla presa diretta di Gesù, insieme ai discepoli, con la folla.
La scena originaria del vangelo è l’annuncio di una Presenza, che Gesù chiamava il Regno: “Dio c’è, ti chiama, chiunque tu sia, apri gli occhi e volgiti a lui” (Mc 1,15). Questo invito è sempre accompagnato da segni di liberazione dal male, in tutti i sensi. La compagnia scelta dal Maestro è parte integrante del messaggio: sono gli emarginati, i malati, i peccatori. La buona notizia consiste nel ripetersi di questa scena: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Avviene un ribaltamento: l’inizio della “religione dell’uscita dalla religione” (M. Gauchet) Il sacro separa e include, il santo invece accomuna e riconosce. Agisce come il lievito nella pasta.
I protagonisti di quest’azione sono Gesù, i discepoli e la folla. Gesù si muove in forma di transito, non si ferma nella grande città, crea piccoli punti di una rete di popolo. La folla, infatti, è il popolo al quale il vangelo è predicato ed eseguito. La predicazione avviene in parabole, racconti che tutti possono comprendere, perché riguardano le forme degli affetti della vita quotidiana (padri e figli, denaro, cibo, custodia della casa, cura del debole e del vulnerabile). I discepoli sono uomini e donne che stanno con il Maestro e partecipano direttamente alla sua opera. Il vangelo non contiene un’epica dei grandi eventi. La rivelazione che salva il mondo avviene nella vita quotidiana della gente.
Nella folla capitano gli incontri più decisivi con Gesù (Zaccheo, la samaritana, la donna con perdita di sangue…). Qui Gesù trova, meravigliato, la fede più genuina: “Davvero grande è la tua fede!” (Mt. 15,28). Non tutti questi incontri producono discepoli. Non è necessario. Nella folla cresce, infatti, il popolo delle beatitudini (di quelli che pur non essendo discepoli alimentano la fame e la sete di giustizia, patiscono per onorare la parola data, spendono la vita per ciò che vale). Queste persone, anche se contano poco sulla scena sociale, hanno trovato il tesoro della vita (Mt 13,44). Il bello dell’umano è che la felicità (“beati voi…”) delle sue imprese e la sua giustizia, il suo senso, la trova fuori dal calcolo dell’utilità e dalla gratificazione istantanea. Anche chi è ferito o ha poco nella vita, se compie qualcosa di gratuito, conosce un’emozione e una profondità che nessuna ricerca del successo potrebbe garantirgli.
Il popolo delle beatitudini è il nostro complice nell’opera dell’evangelizzazione. La parrocchia che perde i soggetti delle beatitudini, oltre a diventare sale spento e presenza inutile, contribuisce a rinforzare l’anonimato della società di massa.
La cristianità aveva fatto coincidere la folla con i discepoli e così dimenticava la folla reale. Nella nuova condizione, le folle ritornano la prima preoccupazione della “chiesa in uscita”.
Il mondo, diventato un’immensa periferia, aspetta la testimonianza affidabile che per Dio noi non siamo perduti, che per lui contiamo come figli. Questa garanzia non può essere data dai grandi eventi, ma solo costruendo posti domestici, piccoli nodi di rete, luoghi di accoglienza e di adorazione, pieni di affetto e di poesia, che tutti possono trovare e godere. Nella chiesa che nasce dove sono le folle, infatti, il Signore continua a toccare, accarezzare e guarire. Così si vince l’anonimato e la disperazione.