I poveri e l'accoglienza
La fede fa ingresso nella storia nell’incontro con gli umili.
L’amore di cui parla il Vangelo unisce Dio e i poveri in un legame indissolubile. Il cambiamento che Gesù chiede di riferire a Giovanni, come segno dell’intervento di Dio, è che “ai poveri è annunciato il Vangelo” (Mt. 11,4-5). La povertà evangelica è una disposizione interiore e spirituale alla quale corrisponde una coerente condotta di vita. Nel Vangelo la povertà è beatitudine, la ricchezza maledizione: “Beati voi che siete poveri (…) Guai a voi, ricchi” (Lc 6,20.24). L’ostentazione del potere economico e la falsa sicurezza del denaro sono espressioni di arroganza. La porta d’ingresso della fede cristiana comporta la rinuncia alla maledizione della ricchezza perché fiorisca la beatitudine della povertà. Per vivere nella libertà e gustare il piacere della vita è necessaria la sobrietà nell'uso delle cose. C’è infatti una ricchezza nella povertà, così come c’è una miseria nella ricchezza. La nostra epoca ha conosciuto la forza disumanizzante della ricchezza, l'avere che spegne l'essere, il benessere dove l'inutile diventa il tutto. La povertà evangelica non è mancanza; è beatitudine, cioè pienezza dell’umano. Nel linguaggio di Gesù povertà è una “parola piena”, è l’umano ricondotto allo splendore dell’essenziale, l’umano senza aggettivi. Le cose sono necessarie e preziose. Nessuno ne può (e ne deve) rimare digiuno. Il cristiano ha il dovere di amministrare con intelligenza le cose preziose ed utili. Il credente impara a essenzializzare la propria vita, a semplificare, a ridurre le proprie esigenze, a essere lieto dell'essenzialità. Nessuno ha il diritto di sprecare le cose e neppure di accaparrarle per sé. Sulla proprietà privata grava un’ipoteca sociale. Lo stile di vita consumistico ed edonistico è inconciliabile con la professione di fede. Le cose, infatti, sono “sacramento” (segno della tenerezza con cui Dio ama e provvede con abbondanza di Padre), non sono mera materia. Il credente le vive come intermediari del valore della vita e delle relazioni. La virtù della povertà pone le condizioni dell’amore appassionato per il valore e la bellezza di tutte le cose. Anche il denaro è realtà sacra. C’è una facilità e un’inavvertenza nello spendere che è peccato.
Occorre ripensare la povertà fuori dall’esclusivo dominio dell’economia, per poterla restituire alla condizione umana, miseria in cammino verso una divina pienezza.
Nella riduzione del peso del superfluo e dell’alienato, la pulsione della vita raggiunge il suo splendore: diventa coscienza piena della loro preziosità ed essenzialità. Piacere vero, godimento autentico di ciò che di buono, di bello e di giusto la vita ci offre quotidianamente.
È la corruzione della povertà che genera la miseria, che è la patologia della pienezza. Chi ama, infatti, condivide. Chi trattiene per sé, si separa dagli altri. Povera è la persona comune: cum-munis (chi vive del dono degli altri e si fa dono al prossimo). Il ricco, all’opposto, pensa a sé e basta¸ si immunizza (im-munis). Il povero è conviviale perché umile (fatto di terra).
La miseria esiste in quantità inversamente proporzionale alla virtù della povertà. La giustizia del povero si orienta ai due principi della sobrietà e della solidarietà: “Non cercare di arricchirti”, “Ciò che possiedi, l’hai per condividere”.
Il fascino e lo splendore della virtù della povertà rende belle le persone e ne fa dei testimoni dell’evangelo.
La cura di questa virtù e la pratica della fraternità possono fare delle parrocchie case dell’accoglienza. Questi luoghi possono diventare eco e riflessione su ciò che avviene nel mondo. In parrocchia si possono promuovere incontri, attività, riflessioni, preghiere legate con le questioni che abitano la vita delle persone e le dinamiche sempre difficili e complesse dell’odierna vita familiare. Atelier per genitori, iniziative di cittadinanza attiva, forme alternative di mercato, educazione ecologica e alimentare, formazione all’impresa sociale, sono solo alcune delle infinite opportunità che si aprono. Oltre a essere luoghi di riflessione, i luoghi di accoglienza possono diventare spazi di solidarietà, dove s’impara a offrire il proprio aiuto e a contare gli uni sugli altri. La missione della chiesa richiede un alto livello di competenze che spesso solo dei laici possono avere, per l’attività professionale che svolgono.
I luoghi di accoglienza e di cura della vulnerabilità possono essere gli avamposti della ricerca di nuovi percorsi di civiltà e di testimonianza di fede. In questo servizio si generano tessuti di relazione fraterna e responsabile, si trasforma la paura in speranza, si assume il senso d’impotenza per superarlo e cambiarlo in energia dinamica, in resilienza. I credenti vi riconoscono il lavoro nascosto dello Spirito.
Nel fenomeno delle maison d’Eglise bisogna tenere presente un elemento determinante, ma non sufficientemente entrato nella coscienza: il bisogno di luoghi di evangelizzazione. La chiesa parrocchiale è il luogo di una comunità costituita, una Chiesa piantata, una Chiesa che ha tutto, cattedrale e vescovo compresi. Questa presenza nella città è insufficiente, perché non corrisponde a una società a cui portare la novità del vangelo. Le maison d’Eglise sono la punta avanzata della Chiesa nella città, dove si cerca spazialmente l’incontro con chi è estraneo. Sono uno spazio di offerta del vangelo, dove non è necessario celebrare l’eucarestia. Ma questi spazi sono complementari a quelli tradizionali. La punta avanzata di evangelizzazione avrà bisogno che una persona, nella felice eventualità che acceda alla fede, possa abitare poi nella casa di famiglia, una comunità completa e costituita.